Il nostro
guardaroba contiene gli abiti che ogni giorno scegliamo per vestirci, ma
sappiamo realmente cosa c’è nel nostro guardaroba? Sappiamo da dove arrivano,
di che materiali sono fatti e quale processo di lavorazione hanno subìto i
nostri abiti? E’ strano che, da un punto di vista salutistico, facciamo
attenzione a quello che mangiamo, ma non a quello che mettiamo sulla nostra
pelle! Forse perché consideriamo più importante quello che mettiamo “dentro” il
nostro corpo che non quello che mettiamo “fuori”, anche se a contatto con la
nostra pelle. Eppure la pelle è un organo molto importante del nostro corpo, è
il nostro organo più esteso, la prima barriera di difesa contro potenziali
agenti patogeni, regola la nostra temperatura corporea, la dispersione idrica e
produce la vitamina D, che permette di fissare il calcio nelle ossa. La pelle è
come una spugna, assorbe le sostanze con le quali viene a contatto, pensiamo ai
cerotti curativi che vengono utilizzati appunto per far assorbire gradualmente
attraverso la pelle un determinato medicinale. Questo assorbimento da parte
della nostra pelle avviene sia che si tratti di sostanze benefiche che di
sostanze nocive, perciò se i tessuti che vengono a contatto con la pelle
contengono sostanze irritanti e tossiche, la pelle le assorbirà trasferendole
al nostro corpo.
Generalmente
non ci pensiamo, ma ogni capo di abbigliamento, prima di arrivare nel nostro
armadio, è passato attraverso lunghe lavorazioni effettuate con prodotti chimici
come coloranti, candeggianti, fissatori, antimacchia, antimuffa, fungicidi e
molti altri. I numerosi residui di queste sostanze che si trovano nei nostri
vestiti possono provocare irritazioni, allergie e possono anche intossicare
l’intero organismo. Le dermatiti allergiche sono sempre più in aumento e vari
studi scientifici hanno dimostrato che la maggior parte di queste dermatiti
sono causate dalle sostanze chimiche utilizzate soprattutto nella fase di
tintura dei tessuti. In Europa molte di queste sostanze sono state proibite, in
quanto cancerogene, ma sono ancora utilizzate nei Paesi più poveri, soprattutto
asiatici, dove le leggi per l’uso di sostanze tossiche non esistono o vengono
ignorate. Comunque anche in Europa e in Italia vengono ancora utilizzate
sostanze chimiche per le quali esiste “solo” il sospetto di pericolosità ed
inoltre molte aziende, anche italiane, delocalizzano alcune fasi di lavorazione
proprio nei Paesi come la Cina, l’India o il Bangladesh, dove la manodopera
costa poco, senza controllare che siano rispettati i parametri europei sulle
sostanze chimiche.
Il ciclo
produttivo degli indumenti è un percorso lungo ed articolato che ha inizio con
la materia prima , la fibra tessile che può essere naturale – vegetale o
animale - o artificiale o sintetica.
Tra le fibre
vegetali quella più utilizzata è il cotone, che viene ricavato dalle piante del
genere Gossypium, coltivate perlopiù in maniera intensiva, in monocultura
(pratica che utilizza lo stesso terreno, ripetutamente anno dopo anno e che
provoca l’impoverimento del terreno) e con ampio uso di fertilizzanti chimici e
pesticidi. Queste sostanze nocive penetrano nei terreni ed inquinano le falde
acquifere e fanno ammalare seriamente milioni di contadini dei Paesi più
poveri. Purtroppo il cotone biologico, non OGM e coltivato senza uso di
sostanze chimiche di sintesi rappresenta solamente una minuscola percentuale
della produzione mondiale.
Il lino, la
canapa e la juta, a differenza del cotone,
sono ricavate da piante molto più resistenti ai parassiti che richiedono
quindi pochissimi pesticidi e che necessitano di poco apporto idrico,
risultando quindi coltivazioni con un basso impatto ambientale.
Tra le fibre
naturali animali la più utilizzata è sicuramente la lana, ottenuta dal vello delle
pecore e di altri animali. Purtroppo gli animali dai quali si ricava la lana
vivono una vita dura, sottoposti a tosatura in tutte le stagioni (spesso
meccanica e che provoca dolorose escoriazioni) e lasciati poi esposti alle
intemperie senza la protezione del loro pelo e sottoposti a pratiche crudeli
come il mulesing.
Altra fibra
animale che comporta crudeltà è la seta, estratta dai bozzoli realizzati dai
bachi del gelso, sottoponendoli a stufatura, trattamento che uccide l’insetto
racchiuso all’interno del bozzolo tramite vapore d’acqua a 80°. L’unica seta
prodotta senza crudeltà è quella denominata “buretta” indiana che deriva dalle
prime secrezioni del baco, prima che formi il bozzolo, oppure da bozzoli già
sfarfallati ed è quindi ottenuta senza
l’uccisione del povero insetto.
Ci sono poi
le fibre artificiali, tra cui la viscosa e l’acetato, prodotte dall’uomo a
partire da polimeri di origine naturali, che sono il risultato di un processo
industriale che richiede l’impiego di sostanze inquinanti e pericolose, con
conseguenti problemi ecologici.
Altre fibre
prodotte dall’uomo sono le fibre sintetiche, tra cui il poliammide (nylon), il
poliestere e l’elastan, prodotte a
partire da polimeri di sintesi. Queste fibre sono molto utilizzate per la
confezione di abiti, in genere mischiate a fibre naturali per ottenere tessuti
morbidi e molto resistenti. Il poliestere ad esempio è la fibra più utilizzata
in assoluto e può essere ricavato dalla trasformazione della plastica Pet (le
bottiglie dell’acqua) ottenendo il pile e riciclando così un materiale di
scarto che verrebbe altrimenti disperso nell’ambiente o accumulato nelle già
straripanti discariche.
Proseguendo
nell’esaminare il ciclo produttivo degli indumenti, sappiamo ovviamente che
dalle fibre si deve ottenere il filato, dal quale realizzare poi il tessuto e
successivamente il capo di abbigliamento. Quindi, a prescindere dal tipo di
fibra del quale è composto il nostro abito, prima della sua realizzazione
dovranno verificarsi tutta una serie di passaggi e lavorazioni ed è proprio in
queste fasi che verranno usate le sostanze chimiche che potrebbero entrare in
contatto con la nostra pelle.
Le fibre
naturali, prima della filatura, sono sottoposte a lavaggi con particolari
sostanze chimiche per eliminare le impurità e spesso, come nel caso della lana,
trattate con candeggianti. A questo punto si procede alla filatura che
trasforma le fibre in un unico filo avvolto in una matassa.
Una volta
formato il filato si procede alla tessitura, ma prima di questa il filato viene
impregnato di ulteriori sostanze che servono a far scorrere bene i fili sul
telaio. Il tessuto così creato dovrà poi passare alla fase successiva che è
quella della tintura, ma prima andrà lavato con sostanze particolari come acidi
e candeggianti per eliminare le sostanze con le quali i filati erano stati
impregnati per scorrere meglio.
La tintura è
la fase più delicata di tutto il processo produttivo, è il processo più
pericoloso per la salute dei lavoratori, il più inquinante per l’ambiente e
quello che lascia più residui nocivi sull’abito che indosseremo. L’operazione
di tintura viene effettuata con immersione del tessuto o della matassa di filo
in un bagno colorato ottenuto con prodotti chimici. Oltre al colorante chimico
vero e proprio, vengono utilizzate anche altre sostanze che servono a
migliorare l’assorbimento del colore ed a fissarlo. Tutti questi prodotti impiegati
sono tossici e provocano seri danni alle persone che lavorano a contatto con
essi ogni giorno, all’ambiente ed a noi consumatori perché i residui rimasti
sul capo che indosseremo possono continuare a rilasciare sostanze pericolose.
L’ultima
fase di realizzazione del tessuto prevede una serie di lavorazioni che servono
a modificare l’aspetto ed il tatto del tessuto e determinano come si comporterà
nelle varie situazioni alle quali sarà sottoposto. Vengono quindi applicate
soluzioni chimiche antimacchia, antipiega, antifiamma, antimuffa,
antibatteriche ed altro ancora.
Quindi,
durante tutto il ciclo di lavorazione, il nostro indumento è stato trattato con
un’infinità di miscele composte da acidi e coloranti vari potenzialmente nocivi
ed irritanti, fortemente sospettati di avere effetti cancerogeni.
Purtroppo
anche gli indumenti per i più piccoli subiscono gli stessi trattamenti e la
pelle di un individuo ancora in fase di crescita è sicuramente più delicata e
più vulnerabile. Infatti nei bambini piccoli sono frequenti le reazioni
cutanee, come arrossamenti, irritazioni e anche eczemi, spesso attribuite ad
altri motivi, come intolleranze alimentari, ma che in realtà potrebbero essere ricondotte
all’utilizzo di un certo indumento e non per allergia personale ma per le
sostanze in esso contenute.
Ovviamente
se i residui di sostanze tossiche contenute negli abiti possono far male a chi
li indossa, sicuramente fanno male a chi li produce, operai che lavorano in
nero, sottopagati e senza tutele nelle fabbriche dell’Asia o dell’Africa, dove
la tutela del lavoro, la prevenzione e la sicurezza sono completamente
ignorate. La maggior parte della forza lavoro nel settore tessile è femminile,
donne pagate pochissimo, che lavorano con orari estenuanti, che subiscono ogni
tipo di sopruso e che, pur di guadagnare qualcosa per sfamare la famiglia, sono
disposte a sottostare a regole imposte da datori di lavoro che ignorano i più
elementari diritti umani, prima ancora che sindacali, mettendo a rischio
gravemente la loro salute e la loro sicurezza. In Paesi come la Cina, il
Bangladesh, l’Indonesia e l’India il salario medio di un lavoratore è di circa
due dollari al giorno per otto ore di lavoro, ma le ore di lavoro sono
generalmente 12 e anche 14 e non certo pagate come straordinari!
Queste
storie di sfruttamento, non sono solo legate alla produzione di abbigliamento
economico, ma riguardano anche i grandi marchi occidentali che hanno
esternalizzato la loro produzione proprio nei Paesi poveri per risparmiare sui
costi e fingono di non sapere a cosa sia dovuto quel risparmio. E’ quindi molto
probabile che almeno il 90% di quello che abbiamo nel nostro armadio sia stato
prodotto attraverso queste storie di sfruttamento in quanto nel mercato globale
le lavorazioni di un indumento si svolgono in più continenti.
La questione
ambientale è un altro terribile risvolto dell’industria tessile. Questo è un
argomento di così vasta portata che andrebbe certo trattato in maniera più
approfondita, ma basti sapere che Paesi come la Cina stanno inquinando
massicciamente acqua, suolo ed aria con polveri e veleni di ogni tipo.
Ma
fortunatamente esistono delle alternative per chi vuole passare ad un consumo
più consapevole e responsabile … l’abbigliamento eco compatibile, biologico, equo
e solidale, la moda etica, la cosiddetta “critical fashion”.
La prima
regola per avere un guardaroba sano ed etico è comprare meno abiti. Spesso per
“amore” dello shopping acquistiamo compulsivamente capi di abbigliamento, di
qualità scadente, che non ci servono e che magari indosseremo solo poche volte
prima di sostituirli con altri acquistati con
uguale frenesia. Dovremmo anche tenere in considerazione il baratto,
molto affermato all’estero, l’acquisto
di abiti usati nei “charity shop” (circuiti di stampo inglese gestiti da
organizzazioni di volontariato per finanziare progetti umanitari) ed anche il
riuso di abiti scovati nel fondo del nostro armadio, magari reinventati e
rivisitati con un po’ di fantasia e creatività. Ed infine quello che proprio ci
occorre e non possiamo fare a meno di acquistare, acquistiamolo lontani dalle
grandi firme e dalla produzione in serie, rivolgendoci al biologico, al mercato
equo e solidale ed alla moda etica, che produce abiti belli e di qualità ideati
da giovani creativi indipendenti che prestano attenzione non solo alle tendenze
della moda ma anche e soprattutto all’etica.
E’ perciò molto
importante, come consumatori consapevoli, scegliere i vestiti non solo sulla
base di estetica, praticità e prezzo, ma valutarne tutti gli aspetti, compresi
come, dove, con cosa, da chi e in quali condizioni è stato fatto l’abito che
stiamo acquistando e che ci metteremo addosso. Conoscere è il primo passo per
poter scegliere consapevolmente!
Noi, come
consumatori, abbiamo un enorme potere, perché il mercato si basa sulla legge
della domanda e dell’offerta e quindi possiamo influenzare l’offerta, cambiando
la nostra domanda!
Nota: le
informazioni sopra riportate sono in parte tratte dal libro “Vestiti che fanno
male” di Rita Dalla Rosa, che vi consiglio di leggere per gli approfondimenti.